(luca rolandi). Trent’anni sono mezza vita, un progetto che si realizza o finisce nell’incedere del tempo. Era una notte di fine primavera. Era il 29 maggio 1985. Non c’erano i telefoni mobili, la rete internet, i dispositivi digitali e il villaggio globale era solo una idea futura. Si comunicava con la carta e il telefono. Stadio Heysel, Bruxelles, sta per andare in scena la finale di Coppa dei Campioni, tra le squadre più forti del momento la Juventus dei campioni del mondo di Spagna 1982 e il Liverpool a fine di un ciclo di straordinarie vittorie. Trapattoni contro Fagan, Platini contro Rush. I campioni in carica, i reds della città dei Beatles e la Juventus che di quella “maledetta” coppa ha ricordi negativi, due finali perse, con il grande Ajax nel 1973 e con l’Amburgo due anni prima, nella più cocente delusione della storia bianconera.
La Juventus aveva superato il Liverpool nella Supercoppa nel gennaio 1985 in gara unica a Torino, 2-0 con doppietta di Boniek, l’attesa infinita, la gente bianconera ci crede e si muove con ogni mezzo per sostenere la Vecchia Signora.
Qui finisce il racconto sportivo e parte la cronaca nera, di una notte maledetta. L’insipienza e la vergogna, la colpa grave senza attenuanti del Governo Belga, che non seppe neppure per un minuto garantire l’ordine pubblico, la Uefa che organizzò una finale in uno stadio fatiscente e pericolosissimi, gli hooligans inglese, coperti e protetti in patria fino a quella tragica notte, che colpirono e si scagliarono contro tifosi inermi, vittime in una notte da incubo.
Alle 19,30 gli inglesi attaccano, il settore Z che conteneva molti italiani e tifosi tranquilli di altri paesi europei, sono schiacciati dalla furia dei teddy boys inglesi.
Le gradinate erano di terra ed i gradoni composti da pietre/ mattoni che si distaccavano dalla stessa terra con facilità estrema.
La curva era divisa a metà da una rete metallica “tipo pollaio” e da una parte vi eravamo soprattutto italiani, non organizzati in club, l’altra metà era destinata agli inglesi. Nel settore c’eravamo tutti coloro che avevano acquistato il biglietto con pacchetti delle Agenzie, quindi la maggior parte erano tranquilli turisti, padri di famiglia con mogli, figli e ragazzi al seguito. La curva inoltre “terminava letteralmente con un muro” senza alcuna uscita e/o cancello, non continuando con le tribune che erano distanti e divise da un fossato.
Il panico li spinge verso il muro che delimita la tribuna. In molti scappano, altri soffocano, la polizia non apre i varchi. Alle 20, 15 è tutto finito. 39 corpi di uomini e donne giacciono in un campo diventato obitorio. Ci sono il piccolo bimbo sardo Andrea Casula, la giovane ragazza aretina Giuseppina Conti, che era stata premiata con la finale per i suoi risultati scolastici, il medico Roberto Lorentini, che prima di scomparire, salvò altre persone fino a scomparire. Il caos è totale, il campo è invaso dalla gente, lacrime, sangue, dolore, feriti e morti, tanti morti. L’emergenza è tale che viene chiamato l’esercito, dopo che per una gara del genere erano stati predisposti prima dell’inferno, solo poche centinaia di agenti. Le notizie circolano in fretta. In tribuna stampa è il caos, i feriti (saranno 600 in tutto), vanno a farsi medicare negli spogliatoi. Gli ultras della Juventus scendono sulla pista, vola di tutto. La tensione è fuori controllo. I giocatori della juve sanno si sono già rivestiti. Gli inglesi restano chiusi negli spogliatoi. La Uefa prende l’unica decisione giusta, fare disputare una partita che sarà vera, ma assolutamente surreale. Vince la Juve, segna Platini, su rigore, concesso per un fallo su Boniek iniziato abbondantemente fuori area.
In trance la squadra festeggia, la curva esulta, molti non hanno notizie certe. Oggi sapremmo tutto in tempo reale. Il volto sconvolto di Edoardo Agnelli, ritratto in una foto storica rende l’idea di una tragedia assurda. Bruno Pizzul commenta una partita senza senso. Il calcio, lo sport sono fuori. Era cronaca nera, guerra.
Tanto si è scritto, detto, girato. Belle pagine, commozione e angoscia. Ma l’Heysel non è un romanzo, è un fatto tragico accaduto e per questo, la rabbia e l’indignazione, si uniscono alla volontà di raccontare le verità nascoste. La Juventus ha fatto poco, solo da qualche anno ha iniziato un rapporto sincero con l’Associazione dei famigliari. Il Liverpool è stato reticente per alcuni anni poi la seconda più grave strage che colpi nel 1989 all’Hillsborough Stadium di Sheffield, prima di un Liverpool-Nottingham Forest, d Coppa d’Inghilterra, con una carneficina, 96 morti.
Per l’Heysel, tra l’indifferenza di troppi, c’è stata una lunghissima vicenda giudiziaria. Imputati il Governo Belga, l’Uefa e gli hoolignas di Liverpool. Un lungo processo. Poche persone l’hanno seguito. Un grande avvocato italo-Belga Vedovato ha speso anni per aiutare i famigliari nella difficilissima battaglia legale. Se oggi in Europa gli Stadi sono più sicuro e le responsabilità definite lo si deve a Otello Lorentini e alla battaglia legale, spesso portata avanti nell’indifferenza di società, federazioni e istituzioni politiche e sportive.
Tra le ricostruzioni più fedeli e nate per dare voce a coloro che hanno dovuto convivere con il dolore per una vita intera, il libro di Francesco Caremani, giornalista aretino, per sua stessa definizione “juventino ma non tifoso”, riconoscendo alla parola “tifoso” un’accezione negativa purtroppo rinsaldata dagli avvenimenti degli ultimi mesi. Il suo libro “Heysel: una strage annunciata”, edito dalla coraggiosa casa editrice Bradipolibri diretta da Luca Turolla, è uno dei più efficaci memoriali su ciò che accadde quella sera. Caremani va nelle scuole, nelle piazze, collabora in modo stretto e riconoscente con L’Associazione Vittime dell’Heysel, fondata da Otello Lorentini e oggi guidata dal nipote.
La storia di Caremani è legata a doppio filo a quella notte, che non lo vide spettatore diretto solo per un fortuito caso della vita: “Dovevo andare anch’io a Bruxelles insieme a Roberto Lorentini, amico di famiglia, ma presi un brutto voto in latino, e per punizione per il sicuro esame a settembre i miei genitori non mi lasciarono partire”.
Da allora non ha mai smesso di pensare a quella sera e gli sta dedicando una parte essenziale della sua vita, per onorare e ricordare le 39 vittime. Non si può morire per una partita di calcio, ma è successo a Bruxelles il 29 maggio 1985, e ancora oggi accade. Da allora è stato fatto per migliorare la sicurezza negli stadi, siamo ancora lontani dal passaggio culturale che bandisce la violenza dal calcio. Ogni volta che ascoltiamo un coro indecente da stadio pensiamo ai tanti morti innocenti, di quella e altre notti e vergogniamoci.